martedì 22 novembre 2011

Il lungo viaggio

Forse perchè all'andata ero più euforica, ma non mi era sembrato un viaggio così lungo.

Il tratto Arambol-Goa è in macchina, coi due israeliani e l'autista per tutta l'ora ci farà sentire a loop un cd di Bob Marley. Il cd ogni tanto salta, ma resiste.
E così, con un sottofondo solare ma velatamente malinconico, guardo le palme, gli accenni di giungla, le case, i fiumi e tutto il resto dal mio finestrino.
E' l'ultima annusata di india, perchè poi ci saranno solo areoporti abbastanza anonimi.

Scendiamo dall'auto, vorrei a dare all'autista la mia scatola di malarone fortunatamente intatta, ma ha fretta di andarsene. Così ripiego sulla solita donna delle pulizie che però non capisce bene cosa le sto dando, ma dopo qualche tentativo capisce la parola malaria e quindi credo abbia tirato le somme.

Nell'attesa dell'imbarco, ci è dato modo di seguire in tv una divertente soap opera indiana dove tutto si svolge in una ricca casa dove le donne danno vita ad intrighi e passioni, mentre gli uomini fanno i duri dallo sguardo tenebroso.

Finalmente si parte, in un'ora abbondante sono nell'areoporto di delhi, dove faccio colazione con un panino mc donald.

Il volo delhi-istanbul è lungo e tutti dormono. Accanto a me un vecchio professore indiano che vive a berlino e ha voglia di chiacchierare. Mi legge anche la mano e in sostanza mi dice che è tutto ok.
E' gentile, mi lascia la sua e-mail chiedendomi di scrivergli, però è anche un pelino azzeccoso e arrivati ad istanbul, dopo i saluti di cortesia, lo mollo.

Istanbul vuol dire sei ore di attesa. Il computer è scarico e le prese non sono compatibili con la mia spina. Dormo alla crudele, accampata sulle poltroncine tra negozi chic e un fiume di gente che passa, ma sono molto stanca e riesco a riposare lo stesso.
Al rieveglio, mangio un hot dog così pessimo che nonostante la fame non riesco a finirlo.

Istanbul-roma mi sembra un viaggio breve. Ormai i volti stranieri cominciano a diminuire e i miei vicini di posto italiani non fanno che fastidiosamente parlare di lavoro tutto il tempo. Dopo un mese, scopro che il mio lettore mp3 è scarico. Passiamo sopra bari, la riconosco, e mi viene voglia di premere il campanello per prenotare la fermata. Ma non è così facile, tocca pazientare ancora.
Arrivata in Italia, devo passare un rapido controllo del passaporto e mi sembra strano parlare in italiano e non dover compilare nulla nè rispondere a tante domande.
Capisco quello che si dicono i dipendenti scherzando tra di loro e nessuno mi guarda come se fossi un elemento esotico. Mi sento a casa, anche se sono ancora lontana da casa e da chi mi conosce.

Roma-bari è un soffio. Il tempo di appoggiarmi allo schienale, crollare in un sonno profondo e svegliarmi all'atterraggio. Non so dire nulla dei miei vicini, di quelo che dicevano, di quello che s poteva vedere dal finestrino, Sono davvero stanca.

All'uscita dell'areoporto c'è Gianni, ecco che ritorno al mio mondo. Ancora un po' di strada e sarò finalmente sotto una doccia calda, tra le mie cose.

Del viaggio non mi resterà che il jet lag.
Dell'india...quello è un altro discorso.

Il ritorno

Vado a dormire senza pensieri ma la mattina dopo mi sveglio con già un carico di cose da fare in testa.
Valigia, check in, acquisti, colazione, mare, sole, saluti e baci all'india.

Ovviamente si comincia con la colazione, poi pian piano riesco a sistemare le cose più urgenti. Non so perchè, ma non è possibile fare il check in on line di nessun biglietto, tranne quello roma-bari.
Il vicino di casa israeliano, quello della preghiera della mattina, mi propone di andare in taxi con loro all'areoporto di Goa, risparmiando così due terzi del costo. Il conto me lo fa proprio lui, come se non ci riuscissi da sola. No, i miei vicini sono belli ma poco simpatici.
Comunque pecunia non olet e accetto.

Mi resta un po' di tempo per il mare, considerando che posso pranzare dal lettino vista oceano.
Dopo una mezz'ora di sdraiamento, vedo passare -non ci posso credere- la coppia perfetta italiana.
Anche loro sono sorpresi e ci facciamo un po' le feste per la strana coincidenza.
Si sistemano in un letino vicino al mio e facciamo le solite chiacchiere.
Solo che stavolta capisco un po' meglio la loro situazione e mi sembrano meno perfetti.
Anche lei ha problemi di lavoro, sa cosa vuole fare ma non sa come farlo e i soldi per seguire il ragazzo non sempre li ha.
Poi mi dicono di dormire a goa città, dove la spiaggia è sporchissima, tanto da far passare la voglia di fare il bagno. "Te l'avevo detto di venire ad arambol!" faccio io con aria da cassandra.
Laura - Perfettini: 1 a 1, palla al centro.
Riequilibrata la cosa, li vedo più normali e quindi più simpatici.

Dopo pranzo e qualche bagno, mi tocca tornare in stanza a finire di prepararmi.
Per strada mi fermo nel negozio che avevo già puntato e faccio un po' di acquisti, tra cui un maglione nepalese che - alleluja - mi costa un po' di più che in nepal, ma sempre meno che in italia. E che mi dovrà salvare dal freddo di roma e bari.
Compro anche un po' di altre cosette, voglio spendere le ultime rupie sapendo che sono gli ultimi momenti in cui assaporerò la sensazione di avere un decente potere di acquisto.

Poi casa, doccia, zaini. Riesco anche a rompere uno specchio, ma mi vergogno di dirlo al proprietario che già mi avrà maledetta per la sudata di lima del giorno prima, e lascio cento rupie accanto ad un bigliettino di scuse.

Alle quattro e trenta, puntualissima, sono sul terrazzino che condivido con i bei ragazzoni dal cuore freddo, ma uno di loro è in ritardo. E poi dicono gli italiani...

Alle cinque meno qualcosa si parte. Arriverò nella mia stanza di bari alle undici e passa di sera del giorno dopo.

giovedì 17 novembre 2011

Ultimo giorno ad Arambol

Ancora una volta le cornacchie imperiali indiane mi svegliano prima di quando vorrei. Mi rigiro ancora un po’ sopra il mio sacco-letto finchè decido di mettermi in piedi. Sciabatto fino all’internet cafè di ieri sera, ma stavolta, dopo aver ordinato una bella colazione, mi danno due brutte notizie: non hanno succhi di frutta e la connessione è impossibile fino alle dieci di mattina. Fino a quell’ora in tutto il paese non c’è corrente, quindi niente wi-fi, né lì né altrove.

Dopo colazione torno nella mia stanza, mi carico dell’occorrente e parto per una mini missione. La ragazza che mi ha dato tante informazioni utili per il mio viaggio, compresi i contatti di varanasi e di arambol, è interessata ad una scuola di yoga qui vicino e mi ha chiesto, senza impegno, di andare a dare uno sguardo. Con tutti i favori che mi ha fatto è il minimo…e poi è una scusa per fare due passi.
Alla faccia dei due passi, sotto il sole mi sento come un disperso nel sahara, meno male che ci sono il vento (bahàa) e il mare (sagàr) a ristorarmi. Ogni tanto mollo tutto e vado a fare un tuffo in acqua, peccato che la sensazione di freschezza duri poco. In compenso allontanandomi da Arambol la spiaggia diventa sempre meno frequentata e anche i venditori quasi non ci sono più.

Arrivo boccheggiante nel punto in cui devo lasciare la spiaggia per inoltrarmi nell’abitato e sono costretta ad attraversare un villaggio turistico, uno di quelli chic. Che dire, è proprio bello. Un ponticello in legno per attraversare il fiumiciattolo lo separa dalla spiaggia, poi sono tutte piccole costruzioni in paglia, pulite e ordinate.

Chissà perché lì nessuna cornacchia, solo uccellini che fischiettano allegre melodie tra le alte palme.  Mi fermo al ristorante per riprendermi un po’ dalla camminata. I prezzi sono appena un po’ superiori alla media, temevo peggio. Superato il villaggio da cartolina, in cui sarebbe bello perdere la propria identità e restare fino alla fine dei propri giorni in un lieto oblio, torno nel mondo reale e percorro una stradina interna, tra buche, case improvvisate e negozietti di tutto un po’.
Trovo il centro yoga.  Con il mio inglese ingarbugliato spiego che sono lì per conto di un’amica e che vorrei dare un’occhiata in giro. Vengo rimbalzata da un addetto all’altro, finchè arrivo in un ufficio dove una ragazza inglese si offre di portarmi in giro. Onestamente, dopo le sistemazioni da nababbi di prima, il villaggetto non mi dice molto.  Casette in paglia gialle, un grande ambiente per fare yoga, un altro più piccolo per pranzare.  E anche i prezzi non mi sembrano buoni. La ragazza è abbastanza gentile ma non mi convince molto. E poi, ma sono tutti europei? L’unico indiano l’ho incontrato all’inizio, poi tutti visi pallidi.
Vabbè, la mia missione si conclude lì.
Prima di rientrare in spiaggia, vedo questo simpatico accrocchio sincretico. Una madonna con sant'antonio e un'omino che li onora in pieno stile induista.

Così come a Jodhpur avevo visto un altarino musulmano con offerte di fiori arancioni.

Può sembrare un pastrocchio e non so come i religiosi legati alla tradizione possano vedere queste manifestazioni, ma forse è meglio chiudere un occhio e accettare queste contaminazioni piuttosto che fare loro guerra. Non credo che sant'antonio se ne abbia a male
Torno indietro e ripercorro la lunga spiaggia.

Tanto sole, tanti bagni. Quasi arrivata, mi fermo su un lettino in una zona ancora abbastanza isolata. Prendo un bel succo di frutta, una macedonia e poi mi addormento come un sasso. Però un sasso massaggiato dal vento che oggi soffia da ovest.
Mi sveglio e scopro di essere circondata da russi. Penso alle poche parole che conosco di russo, tutte derivate dall’epoca Gorbaciov e molto poco adatte ad un qualsiasi dialogo. Al massimo potrei dire che il costume bagnato è glasnost, ma vabbè. Tra i russi ci sono alcuni ragazzotti che non mi sono molto simpatici, capisco dal loro modo di fare che prendono un po’ in giro il cameriere e gli indiani in genere.
Il cameriere si chiama Lama e anche lui, come tanti in questa zona, viene dal nord dell’india. Che ci fa a goa? Mi spiega che dalle sue parti ora è inverno e per lui, che fa la guida in montagna, non c’è lavoro. Così fa sei mesi al sud e sei mesi al nord. Che poi la sua famiglia è nepalese, di boudanath, dove ho visto il grande ed emozionante stupa bianco.
Mi chiede che lavoro faccio, se lavoro con i bambini. In fondo non ci è andato lontanissimo. Mi chiede anche se mi piace il mio lavoro. Il suo gli piace, sono quindici anni che lo fa ed è felice. Gli piace variare dal mare alla montagna, anche se preferisce la seconda visto che è nato lì. Ci salutiamo augurandoci reciprocamente buona fortuna.
Sulla via di casa tutta Arambol è assemblata davanti ad un grande incendio che ha colpito un ristorante. Il tetto in paglia è completamente andato fuoco, ma sono riusciti a salvare i tavoli e le sedie. Quando arrivo io ci sono solo quattro ragazzi con dei secchi in mano, di cui due sono turisti. Immaginavo in una maggiore rete di solidarietà tra i locali, invece il grosso delle persone sta a guardare.
Il ragazzo russo antipatico di prima ha subito alluso a problemi di pizzo e ritorsioni. Non lo so, certo che ora quel ristorante starà fermo per mesi.
Stanca, accaldata e sporca arrivo a casa, ma prima scopro di aver perso le chiavi. Nell’attesa che il proprietario – che non ha una copia – apra il lucchetto con una lima, faccio conoscenza del mio vicino israeliano. Un bel ragazzone, non c’è che dire, però con una certa aria di distacco e di superiorità, anche se in qualche modo ha cercato di aiutarmi in questa situazione. Stamattina ho incrociato il suo compagno di stanza mentre pregava con le braccia attorcigliate da un nastro nero e in testa non so cosa (pensavo fosse una lampada frontale, ma non credo proprio). In ogni caso l’israeliano domani parte, come me, ma va in nuova zelanda per tre mesi. Ho schiumato d’invidia e credo che l’abbia capito.
Per finire, a causa dell’incendio, tutta Arambol è senza corrente non si sa fino a quando. Questo vuol dire niente internet e ora che ci penso niente antizanzare elettrico nella mia stanza, ma ad essere ottimisti vuole anche dire niente amplificazione nel ristorantino di pesce. Allora forse ci torno.

lunedì 14 novembre 2011

Arambol 2

Infatti riesco ad alzarmi verso le sette, svegliata dal canto degli uccelli e dalla voglia di vedere l’alba.
Beh, non è proprio l’alba, ma lo stesso non c’è quasi nessuno e i lidi/bar/ristoranti sono quasi tutti chiusi.
Faccio colazione in uno dei pochi aperto, con vista mare.
Poi decido di spostarmi e vado in un’altra spiaggetta, davvero poco distante. Qui c’è ancora meno gente, ma lo stesso  lettini, bar, venditori e ragazzi che vengono a fare due chiacchiere. Alle spalle della spiaggia c’è un laghetto e in molti preferiscono rilassarsi in quell’altro versante. Ovviamente mi immergo anche lì, l’acqua è davvero calda, più dell’oceano.

Dopo la bella colazione della mattina, non ho molta fame. Verso le due prendo un cocco, giusto per gradire.
E poi nulla, come ieri, sotto l’ombrellone, tra il vento e il sole, dormicchio restando sveglia, ascolto le onde (c’è onda lunga, tanto per la cronaca), guardo la gente che passa.
Papaya e sdraia, imparo qualche parola in hindi.
Mare si dice “sagàr”
Sole “suro”
Vento mi pare “habaa”
Luna qualcosa tipo “chandrama”
E insomma, si va avanti così.


Al calar del sole torno nella mia stanza, faccio la doccia provando le cremine nuove e infine crollo sconfitta dal sonno.

Peccato solo per la mia pancia, la sera evito anche la grigliata di pesce perchè lo stomaco dice di no.
Ripiego su un sandwich al pollo, in sostanza la versione salata della mia colazione visto che è un toast con dentro fettine sottili di carne. Però la novità è che è il mio primo pasto non vegetariano dopo tanto tempo, speriamo che la pancia gradisca.

Vabbè, da questo ristorantino a strapiombo sul mare, ti saluto.
Penultima sera ad Arambol e in India.

Arambol

Mi sveglio verso le otto perché il mio sonno è disturbato dal canto insistente degli uccelli. Scendo a fare colazione e conosco un napoletano che anni fa ha avuto un grosso incidente e ora usa i soldi dell’assicurazione per viaggiare. E’ appena arrivato a Goa da Mosca, consigliato da amici russi che lo raggiungeranno tra un paio di settimane. Non posso invidiare una persona che è rimasta in ospedale per mesi, ma lasciatemi invidiare una persona che può viaggiare senza problemi.
Compro un pareo e dopo due passi sono in spiaggia. Come in italia, anche qui è pieno di “lidi” ma in versione ridotta. Non hanno in gestione un pezzo di spiaggia, ma piuttosto sono dei bar che forniscono il servizio lettino e ombrellone. I lettini sono su un’unica fila, a pochi metri dalla battigia. La spiaggia non è particolarmente larga, diciamo il giusto per far convivere lettini, passanti, venditori e cani, senza creare sensazione di soffocamento.
Neanche in questo pezzo di india così rilassante si è al riparo dai negozianti e visto che da spaparanzata passa anche la voglia di muoversi, sono loro a farmi visita.
Diversamente da altrove, qui sono le donne a commerciare. Dopo la seconda capisco il loro repertorio di moìne e di frasi per addolcire il turista che con quattro euro può far felice una giovane ragazza già madre di due bambini. Alla fine diventa una cosa a metà tra il commerciante che cerca di venderti qualsiasi cosa abbia una proprietà spaziale e il ragazzino che appena il risciò rallenta chiede qualche rupia.  Il tutto condito da complimenti sulla mia bella pelle bianca, che lei vorrebbe tanto, ed espressioni da cucciolo ferito se gioco al ribasso per ottenere uno sconto. La frase chiave è “ma tu così spezzi il mio piccolo cuore!”.
In ogni caso, venditrici a parte, la seconda cosa notevole è il fenomeno per cui noi donne occidentali possiamo metterci in costume in spiaggia, anche se circondate da indiani.
Magari gli sguardi più insistenti provengono dalle vecchie generazioni, ma anche per i giovani siamo un po’ quello che le svedesi dovevano essere agli occhi dei bagnini italiani anni sessanta. Tutto si svolge senza l’insistenza da venditore. Diciamo che l’offerta è chiara, ecco.
L’oceano - l’aveva detto mia mamma! – è caldo, roba che neanche io faccio fatica ad entrarci. E quando sei dentro non hai neanche motivo per fare qualche bracciata. Si sta bene così.
Il che un po’ corrisponde alla mia sensazione complessiva in questo posto. Perché fare qualcosa? Sento le mie onde celebrali avvicinarsi a quelle dello stato di sonno, anche se sono sveglia. Non faccio nulla, eppure riesco a farlo per ore.
La mia quiete ad un certo punto è interrotta da un gruppo di burini indiani che, fortunella, chiedono i lettini vicini al mio. Per dirla tutta, un paio di loro non hanno neanche il costume ma fanno il bagno direttamente in mutande.
Proprio quello dalle mutande bianche, che spero di non dover vedere quando salirà dall’acqua, attacca bottone con me. Mi offre birra e patatine fritte, ma declino preferendo qualcosa tipo questa, una saporitissima macedonia di frutta locale.

E questa invece è una rapida veduta complessiva della mia postazione per tutta la giornata, tranne una pausa nelle ore più calde.


(si, è lui...)

La sera torno al ristorante di ieri, ma l’atmosfera è disturbata da fastidiosa musica da discoteca. I ragazzotti sono di più, capisco che li attiri. Prendo un pesce strano il cui nome non ho capito e un po’ di mix di gamberoni, però mangio in fretta per andarmene.



Finita la cena, a nanna. Domattina voglio alzarmi presto.

Jodhpur-Arambol

Nonostante la stanchezza, passo un’altra notte di scarso sonno. Alle cinque si ripete il rituale alla porta di una stanza accanto, ma stavolta capisco che è il proprietario dell’albergo che sveglia i suoi giovani aiutanti. Loro se la prendono comoda e lui sveglia mezzo mondo.
Resto lo stesso a letto fino ad un’ora ragionevole, poi su in terrazza a fare una abbondante colazione. Ormai è l’unico pasto che riesco a fare senza problemi. Thè nero, succo d’arancia e toast con la marmellata. Poi finisco di chiudere lo zaino, saldo il conto e via verso l’aeroporto.
I ragazzi dell’hotel mi propongono di chiamare un taxi, ma non ho fretta e propendo per un più economico autorisciò (tuk-tuk in gergo, probabilmente per il rumore del motore)
Il mio tuk tuk è del tipo che ho visto solo a jodhpur, più barocco della solita ape modificata. Ha delle colonnine ritorte color argento e gli interni sono in bianco e nero. Sopra il parabrezza c’è anche  lo spazio per le foto di famiglia del conducente. Ovviamente il tutto con almeno 15 anni di usura.
L’aeroporto di Jodhpur è piccolo, sembra una stazioncina italiana, ma i controlli sono molti come sempre. Dimentico sempre che quando c’è da fare un fila è divisa tra uomini e donne, ma per fortuna un signore me lo fa notare e così faccio un gran balzo in avanti. Il tempo risparmiato lo passo cercando un posto a sedere lontano da ventilatori e getti d’aria condizionata. La mia pancia continua a non essere a posto. Niente di esagerato, ma cerco distare attenta per non peggiorare la situazione.
Imbarco, volo jodhpur-mumbai, finalmente servono il pranzo. Quello che prima era un momento di curiosità, ora si è trasformato in un piccolo tormento. Scartare il cibo e annusarlo temendo che l’odore faccia chiudere lo stomaco. Così è infatti, riesco a mangiare solo una mousse dolce. Il mio vicino di posto, un omone grosso e dalla voce gentile, se ne accorge e ordina per me, a mia insaputa, della frutta fresca. Quella si che va bene! 
Scalo a Mumbai, resisto alla tentazione di un caffè o simili e passo il tempo con la connessione free dell’aeroporto. Poi finalmente arriva il momento dell’imbarco e si riparte.

Notare il giornale messo dietro al vetro per fare ombra nella cabina di volo…
Quando, dopo un’oretta, ci avviciniamo a Goa, questa specie di California indiana, c’è una forte foschia e resto un po’ delusa. Scesa dall’aereo la situazione – ovviamente – non cambia. Il sole del tramonto è ricoperto da un fitto velo di umidità, niente tramonto rosso da cartolina.
Il taxi mi costa un po’, ma in effetti il viaggio è lungo. Sto andando ad Arambol, piccolo centro che mi ha consigliato un’amica, non sono alla ricerca di feste o rave, voglio solo (?) mare e tranquillità.
Ad arambol ho anche un contatto, così com’era stato per Varanasi. Si chiama Ash ed è un bel ragazzone del posto, mix tra sangue indiano e sangue portoghese.
Ash è molto gentile, parla al telefono con il mio autista e mi viene a prendere con la macchina. Pensavo fossimo arrivati, invece la strada è ancora lunga, ma è un bel vedere, tra case basse e tanto verde. L’aria è umida e fresca di vegetazione.
Arrivati in paese che è notte, Ash mi porta da “l’amico suo” che mi affitta una stanza a due passi dal mare ad un buon prezzo. A quel punto preferisco anche rimandare la doccia pur di andare a mangiare qualcosa di  -si spera – buono.
Dopo cinque minuti da quando ho posato gli zaini, mi trovo seduta in riva al mare, con un buon profumo di pesce grigliato che proviene dalla mia sinistra. Ordino un succo di ananas e al primo sorso non riesco a credere al mio palato. E’ buonissimo, dolce e vellutato. Assaporando la mia bibita aspetto con piacere la cena. Ho ordinato un mix di gamberoni (ce ne sono di tre qualità) e poi una specie di gamberone tigrato gigante.
Arrivano dopo un po’, su un vassoio con patate, riso e altre verdure crude. Il pesce è buonissimo, aromatizzato con un olio lievemente piccante, ma non fastidioso per il mio povero stomaco.
E così, per la prima volta dopo forse una settimana, mangio senza problemi qualcosa che non sia dolce. Assaporo i miei fraganti gamberoni mentre davanti a me distinguo a malapena il mare, aiutata solo dal biancore della spuma ed al suono dalla risacca.

venerdì 11 novembre 2011

Questa passata non è stata proprio una buonanotte.
Nella mi stanza dovevano esserci più di 35 gradi e io il caldo lo sopporto ma, quando esagera, esagera.
Poi qualcuno ha cominciato a bussare alla porta di una stanza, evidentemente non gli aprivano e allora ha pensato bene di urlare e tirare calci (suppongo). Gli hanno cortesemente aperto e io ho guardato l'ora: erano le cinque.
Con l'alba è iniziato il baccano e la mia stanza dà sulla strada, quindi addio sonno.

Mentre mi misuravo con la nuova sistemazione, ho provato nostalgia verso la mia stanza di Pushkar, topo incluso, e un po' mi è mancato anche l'albergatore indian lover. Ecco cosa succede a fermarsi di più in un posto!
Ora invece sono di nuovo nessuno, una presenza di passaggio che ben presto scivolerà via.
Ma prima di scivolare, vediamo cosa c'è di bello a Jodhpur.

Prima tappa è lo Jaswant Thada.
Si tratta di un monumento funebre ed è stato costruito vicino al punto in cui si cremavano i nobili. Per raggiungerlo si fiancheggia un laghetto, alquanto surreale in queste terra arida e rocciosa.

Tutto il mausoleo è immerso in una verde quiete, in fondo un po' la stessa sensazione che si prova passeggiando in certi tranquilli cimiteri. Solo che qui ci sono musicisti di strada che suonano calme musiche tradizionali e i giardinieri le canticchiano tra di loro.

Il mausoleo tutto bianco è stato costruito da una devota vedova in memoria del marito. All'interno c'è una sfilata di ritratti di sovrani, però a guardarli bene sono uno identico all'altro, a parte il cappello e i baffi.




E a parte questo di cui si ha una foto...e che ha la barba con la riga in mezzo:

Girare per il giardino è molto rilassante, spcecie se si trova un po' di ombra. Ci sono un po' di tempietti, aiuole, vasche con ninfee e tanto prato all'inglese.
E all'orizzonte lui, il forte, la mia prossima tappa:




Mehrangarh Fort

Col risciò arrivo sotto al forte. Per la prima volta da quando sono qui, trovo un'audioguida in italiano ed è una bella sorpresa.
La prendo e un signore con cadenza bolognese mi fa compagnia per tutta la visita.

Il forte è stato costruito nel luogo dove prima risiedeva un eremita che, cacciato di casa, maledisse la futura costruzione predicendone la mancanza di acqua. Per contrastare la maledizione, i sapienti di corte ritennero necessario un sacrificio umano e un nobile si offrì volontario. Venne seppellito vivo nelle fondamenta e da allora la sua discendenza ha un legame speciale con la corte di Jodhpur.

Chissà se è vero.


Con una bella salita, ancora più pesante tra il sole e le pietre, mi addentro nel forte. Le finestre che prima mi gurdavano dall'alto, ora cominciano ad avvicinarsi. Girato un angolo, ecco le famose "manine" lasciate dalle vedove prima di immolarsi sulla pira del consorte. Il bolognese dice che erano condotte su portantine, tutte agghindate a festa, e con la mano colorata di rosso hanno lasciato l'impronta sul muro. Poi si sarebbero sedute insieme al cadavere del sovrano per lasciarsi ardere con lui.



Il percorso poi conduce alla parte museale vera e propria, con collezioni di portantine da elefante o da "spalla". La mia preferita è questa (da spalla):
Ce n'era anche una enorme, tutta in legno intarsiato e dorato e chiusa da vetrate. Per sollevarla erano necessarie dodici persone, davvero esagerata.

Poi il percorso prosegue nei vari ambienti del palazzo, tra corti in cui essere visti senza vedere e stanze sempre più suntuose.

La stanza delle arti e dell'intrattenimento, dove la bellezza doveva innalzare lo spirito:

Un'altra stanza benessere, un po' psichedelica per via delle palle di natale messe sul soffitto come alternativa agli specchietti.

La stanza delle perle, così chiamata perchè è intonacata con polvere di marmo e di conchiglie e quando si mettevano le candele negli appositi vani, assumeva una luce perlescente. Questa era una stanza istituzionale, dove il sovrano incontrava i funzionari e gli altri nobili e le donne potevano ascoltare dalle finestrelle in alto.

Tutto questo passando sempre da un cortile all'altro, sempre circondati dalle finestrelle con grate intarsiate, mai una uguale all'altra.

Fuori dal forte, la città vecchia con le sue case blu.

Allontantandomi dal palazzo reale, il forte riassume una forma più modesta e gironzolando trovo un tempio di Shiva (ho imparto a riconoscere almeno le tre divinità della trimurti dai loro attribut, sono soddisfazioni!).

Purtroppo non è possibile compiere tutta la passeggiata sul muraglione, tra i cannoni. Eppure anche sulla mappa è riportata una frase di Aldous Huxley in cui lo scrittore dice che sul muraglione di Jodhpur si sentono gli stessi suoni che sentono gli dei dell'olimpo.
Io comunque ci sono stata, ma molto dopo Huxley - purtroppo - così che ho dovuto assistere alla lotta tra il canto malinconico del muezzin e lo spernacchiare dei clacson.